PARLARE È UNA GROSSA RESPONSABILITÀ: QUANTO NE SIAMO CONSAPEVOLI ?
Disabilità e autismo sono posti all’attenzione pubblica in modo incostante durante il corso dell’anno. Di autismo si parla molto soprattutto a ridosso della giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo che ricorre il 2 aprile di ogni anno. Il mese di aprile è caratterizzato da svariate iniziative, convegni, presentazione di servizi, incontri nelle scuole per diffondere conoscenza e consapevolezza.
Anche l’inizio dell’anno scolastico riaccende i riflettori, soprattutto per le difficoltà del sistema scuola ad incontrare realmente le necessità di alunnə autisticə o disabilə.
Ci rendiamo conto che le nostre narrazioni risentono molto di false credenze e pregiudizi, che determinano comportamenti talvolta pietistici, compassionevoli, altre volte di aperto o mascherato rifiuto. Anche quando il coro è formato da tante voci specialistiche, purtroppo spesso manca la voce deə direttə interessatə, che non si sentono rappresentatə dalla nostra descrizione.
Le parole hanno la forza di creare il mondo intorno a noi, di formare il pensiero, sono capaci di mettere in moto il cambiamento in una società, possono favorire l’esclusione di persone “diverse” perché considerate “mancanti, difettose”, o favorire l’inclusione di persone “assimilabili” alla maggioranza.
Parlare è una grossa responsabilità.
Un interessante libro di Fabrizio Acanfora (In altre parole, edizioni Effequ, 2021) propone una riflessione sulle parole che formano il dizionario minimo della diversità, ed è consigliabile leggerlo per acquisire un linguaggio più realistico e rispettoso e per costruire ponti di apertura verso ogni persona con la sua singolarità.
Ma cosa si intende per diversità? semplicemente la variabilità, sia negli ecosistemi, sia fra le specie sia all’interno della stessa specie, compresa la specie umana, noi persone. Si può affermare quindi che “normale” è proprio questa ricchezza di variabilità degli organismi viventi. La diversità fra le persone, intesa come “naturale varietà, è un vaccino che protegge dal conformismo, dalle ideologie repressive, dalla censura, e dal pensiero unico” (ibidem, pag.98).
Il concetto equivalente a quello di biodiversità dal punto di vista neurologico è quello di neurodiversità, che include ogni cervello umano, espressione della illimitata variabilità della nostra cognizione. Spesso questo termine viene utilizzato per l’autismo e altre condizioni del neurosviluppo, ma impropriamente; dovremmo usare invece il termine di neuroatipicità, o neurodivergenza, che, insieme alla neurotipicità (termine più corretto rispetto a normalità), costituisce una delle due sottocategorie della neurodiversità. Quindi la “normalità” si trova ad essere una sottocategoria della diversità, e non il contrario. La normalità è definita da parametri culturali specifici di un determinato tempo o luogo. Oggi che tutto viene misurato, intendiamo per normale ciò che rientra nelle medie statistiche anche delle caratteristiche della persona, mentre tutto ciò che non vi rientra è considerato in difetto o in eccesso. Un uso anomalo di questo concetto potrebbe portare ad aumentare le discriminazioni. “Forse è il caso di superarla questa normalità, e pensare che la realtà include ogni variazione, differenza ed espressione della natura umana, e che ciascuna di esse merita pari opportunità e dignità” (ibidem, pag. 156).
La nostra è una società “abilista”, concentrata sull’efficienza e la produzione; il temine “abile” non indica solo la competenza e la destrezza nello svolgere una specifica attività, ma diventa quasi sinonimo di ciò che viene definito “normale” (accettabile, sano, funzionante). La società abilista tende a considerare “inferiori” persone o gruppi che non rispecchiano gli standard di efficienza attesi.
Siamo abilisti quando definiamo bambinə/ragazzə “specialə” coloro che presentano una diversità neurologica, sensoriale, o psicologica, perché senza accorgercene sottolineiamo il fatto che questa specialità è data proprio dalla loro diversità, rischiando di essere offensivi. Così è, anche quando infantilizziamo la disabilità, approcciandoci alla persona come faremmo con un bambino piccolo, trattandola quindi come non cresciuta sufficientemente; ma anche quando usiamo termini come “diversamente abile” o “diversabile”, lasciando intendere nascoste abilità; oppure il termine “portatore di handicap”, cioè di un deficit, di uno svantaggio che pesa portare addosso. Idem quando parliamo di “pazienti” invece che di persone, medicalizzando la condizione di diversità come condizione di malattia o mancanza di salute.
Veniamo all’autismo. Spesso parlando di autismo sentiamo dire “è affettə da” o “soffre di” autismo, ma l’autismo non è una malattia, è una condizione del neurosviluppo, che consiste in una diversa (non sbagliata) organizzazione di alcune aree del sistema nervoso, con le differenze che ne conseguono a livello comportamentale, cognitivo, emotivo, e sensoriale. Molto probabilmente si nasce autisticə, e l’autismo non è transitorio, non passa con l’età. Assistiamo però, come per ogni altra persona, a modificazioni di alcune caratteristiche, spesso in seguito ad apprendimenti. Non si ha l’autismo, si è autisticə. L’autismo è ciò che la persona è. Per questo, la maggior parte della community autistica preferisce essere indicata come “persona autistica” piuttosto che “con autismo”, preferisce quindi l’uso di un linguaggio identity first, piuttosto che person first (persona con…).
Intesa Sanpaolo in occasione della giornata Internazionale dei diritti delle persone con disabilità del 2021, ha lanciato una guida intitolata “Le Parole Giuste” ad opera della sua struttura Media and Associations Relations, che nella stesura del documento si è rifatta alla Dysability Language Style Guide (del National Center on Disability and Journalism, Arizona State University).
La guida è sintetizzabile in alcune indicazioni:
- chiedere sempre alla persona con disabilità di esprimere il suo punto di vista e come vuole essere rappresentata da terze persone o, in caso di difficoltà, chiedere a familiari e persone vicine;
- utilizzare il linguaggio preferito dalla persona (identity first o person first) per rappresentarla;
- evitare neologismi e termini dispregiativi, per es., diversamente abile, diversabile, affetta da, persona con handicap o altri simili, mongoloide, handicappato;
- evitare il sensazionalismo, cioè narrazioni che descrivono la persona come vittima o come eroe, ma attenerci a raccontare la vita nel suo normale svolgimento.
Questo breve articolo vuole essere uno stimolo per riflettere sul potere delle parole che utilizziamo, e per usare questo potere per ricucire le divisioni, diminuire le discriminazioni, l’emarginazione, e costruire unità nella diversità. Ognuno di noi è “altrə” nella sua unicità di persona, e questa nostra unicità va compresa, rispettata ed apprezzata. Si tratta di accogliere come una ricchezza la naturale variabilità che ci contraddistingue.